Oggi niente Job's Bar.
Lester aveva chiuso poiché avevo deciso di prendersi un giorno di pausa.
“Vado a visitare i miei parenti di Cà Omaso e San Abomaso” ci aveva detto tutto bello contento, forse per il fatto di non dovere passare la giornata ad asciugare bicchieri e a servirci i soliti cocktail.
Così rimasi a casa.
O meglio nella mia spelonca, la mia tana che era ubicata presso il condominio “Gelsomino” di Via Bagutti.
Non era un appartamento grandissimo, diciamo che era più che adatto per me che vivevo solo, senza donna e prole a seguito.
Aveva tutto ciò che uno stordito di mezza età single potesse desiderare: un divano in contemplazione del televisore, un ampio frigorifero e un letto sempre pronto all'azione.
Spesso quest'azione consisteva (per me) nel girarsi e nel rigirarsi in continuazione, cercando la posizione giusta per catturare il sonno.
La mia reggia non tastava da molto un vero profumo femminile, che so, di vaniglia, oppure una particolare fragranza francese, di marca, esotica, che ti accarezzasse il mento come a scherzarti o a volere invitarti a ballare.
Quello era un buquet decisamente “maschio”: scarpe lasciate a prendere aria in giro per il pavimento, calze fuggiasche dalla rispettiva compagna e canottiere vagabonde aggrappate alle sedie della cucina. Per non parlare poi dei pericolosi esperimenti chimici delle stoviglie sporche abbandonate al loro misero destino nel lavabo, in attesa di un lavaggio rimandato a data ancora da destinarsi.
Inoltre, poco tempo fa, avevo avuto l'invasione delle vespe. Allora i vigili del fuoco mi imbottirono i cassettoni delle persiane di quintali di pallette di naftalina.
La mia divina Versailles sapeva così di pensionato novantenne in fila da tre ore ai sportelli della previdenza sociale.
Semplicemente un dramma.
Così mi rimboccai le maniche e presi l'ardua decisione di rimettere in ordine, per provare almeno a dare una parvenza di pulito, se non altro di decenza, a quello che era il mio territorio, il mio regno.
Compilai una lista delle cose da fare:
- Nascondere in modo più accurato i numeri di “Tette e motociclette”. Ordinarli per numero e sistemarli in una scaffalatura facilmente reperibile
Posizionare una scaffalatura in bagno
Racattare tutti i vestiti sporchi, ammucchiarli e
metterli in lavatriceaccendere un falòLavare i piatti e le posate
Ricordarsi di lavare i piatti e le posate con una fiamma ossidrica
Raschiare dal pavimento la patina di sporco (É un peccato, perché dà quel tocco in più di vissuto)
Iniziai di gran lena i lavori.
Seppi poi successivamente, da alcuni miei vicini, che si erano sentiti dei rumori non proprio rassicuranti provenire dal mio appartamento.
Colpa della scaffalatura che mi era caduta sul piede (provocando un'inondazione di offese a tutte le divinità della storia dell'uomo) o al lavabo ventriloquo della cucina? Mmh... Chissà.
Comunque sta di fatto che, a un certo punto, preso dallo sfinimento dalle posate che non volevano proprio saperne di scrostarsi da sole, mi convinsi a gettarle virilmente fuori dalla finestra.
Uscii baldanzoso sul terrazzo, che poi era un misero davanzale di mezzo centimetro quadrato, con un fossile di geranio ad adornare il tutto.
Avevo in mano la bacinella piena di stoviglie.
Mi ero assicurato che sotto non ci fosse nessuno.
Tanto giù al piano terra c'era solo una steppa di asfalto e sarebbe dovuta servire come parcheggio. Più tardi sarei andato a recuperare e a gettare il tutto nel cassonetto mangiarifiuti. Volevo solo la soddisfazione di sfogarmi.
Tutto era pronto.
“Per la Repubblica delle Banane e dei Tamarindi Riuniti, per la prova di getto della bacinella, si prepara l'atleta *** ***” strillò un altoparlante. E con esso il grido di una folla immersa in uno stadio immaginario nella mia testa.
La maggioranza del pubblico doveva essere sicuramente maschile dato che percepivo distintamente un fiato decisamente birroso provenire dagli spalti. Poi misi la mano a conca davanti alla bocca. Non era colpa degli spettatori. Ero io.
La rincorsa non era ne troppo lunga né troppo corta. Sulla mia strada non c'erano ostacoli. Potevo coordinare al meglio il mio gesto tecnico. Uno scatto breve seguito dallo sforzo intenso delle braccia nell'atto di gettare il proiettile il più lontano possibile.
Iniziai la rincorsa.
Era determinata, sicura, superba.
Niente e nessuno poteva fermarmi.
Ero ormai a poca distanza dalla soglia del terrazzo.
Le braccia iniziarono a contrarsi, la morsa delle mani si fece più stretta, come a volere strozzare la bacinella.
Un blocco.
Qualcosa mi bloccò. Arrestai tutto. Mi guardai attorno disorientato. Il pubblico iniziò a fischiarmi e a lanciare in campo oggetti: bottigliette, lattine, motorini...
Cercai di capire perché fossi andato in stallo.
Una voce. Una voce femminile, non calda e suadente, ma giovane e squillante.
“Non mi sembrava di avere ospiti in casa” pensai, grattandomi finemente il deretano.
La voce proveniva dall'esterno, da fuori dalla finestra.
Stavolta mi affacciai con fare furtivo e guardingo, come un felino (un grosso felino, dato che non sono mai stato piccolo fisicamente ne, tantomeno, agile).
Alla sinistra del mio terrazzo ve n'era un altro, appartenente a un interno diverso dal mio.
E leggermente appoggiata con i gomiti alla ringhiera, vi era una ragazza, una gran bella ragazza (sia ben chiaro), che stava conversando al cellulare.
“Ottimo! Una bella patacca di vent'anni! Ecco di cosa avrebbe bisogno un vecchio sporcaccione del mio livello!” Dissi tra me e me, alzando con veemenza il sopracciglio sinistro. Solitamente ciò consisteva in un segno di approvazione.
Continuai a spiarla, nascosto dietro l'anta della porta-finestra. Mi sentivo un po' in colpa ma non riuscivo a farne a meno. Forse perché era davvero troppo bella.
Il profilo, grazioso, truffaldino, gentile e quel naso all'insù che faceva prurito al cuore (e forse anche altrove) erano accompagnati da una bocca agile e morbida. Doveva avere un sorriso ammaliante, in cui perdersi, abbandonarsi e mandare a fanculo il mondo. Non le mancava certo la parlantina, anzi. L'accento però non mi pareva delle mie parti (ruspante e passionale) ma di un paese straniero, forse dell'est.
Poi quella magliettina verde corta che lasciava intravedere l'ombelico e quegli shorts che lasciavano in bella mostra le sue cosciottine... Era decisamente troppo per le mie più che provate coronarie.
Come a pigliarmi per i fondelli, ci si mise anche un venticello leggero, al retrogusto di smog e acciaieria, a smuoverle i lunghi capelli castani chiari mossi che, di tanto in tanto, scendevano a stuzzicarle il collo candido.
Avrei voluto morderlo, graffiarlo, farlo mio.
Mi addentai sgraziatamente il labbro per cercare di mantenermi sulla terraferma.
L'inquinamento creava un originale e simpatico effetto “Arizona”, nel senso che la temperatura atmosferica si avvicinava sempre di più a quella della Valle della Morte. Anche la mia si stava alzando.
Percepii questo incremento nel contemplare la curva geometricamente perfetta, che formava la sua schiena con il sederino e le gambe.
Fui ipnotizzato dalle sue caviglie, sottili e leggere, fatte apposta per volare, o in cielo tra le nuvole o tra le lenzuola. Per me non avrebbe fatto molta differenza.
Nel frattempo, gli spettatori venuti ad assistere alla mia prova stavano sfollando lo stadio compiendo gesti osceni a mio indirizzo e invitandomi a visitare località poco eleganti.
Avevano capito che quel giorno non ci sarebbe stato nessun getto di bacinella dalla finestra.