- E cosa avresti fatto tu, scusa? - Chiese Lester asciugando un boccale con un burazzo, aggrottando così tanto la fronte da fare sembrare il suo viso una maschera grottesca teatrale.
Anche a questo giro, ero sempre piazzato sul mio inseparabile trono, lo sgabello in cellophane di elefante.
- Te l'ho detto, gli ho tirato un cazzotto dritto sul mento. E gliel'ho tirato anche bene!- Con orgoglio mostrai parte della mia dentatura lievemente ingiallita, come sorrisetto.
- Io ti conosco da un po'. Fino a ieri non ti avrei neanche visto dare un calcio a un cappone. Ora ti trasformi in un giustiziere. Ciò vuol dire solo una cosa...- Sentenziò l'esperto barista.
- Sentiamo, oh bocca della verità - Ero pronto ad accogliere l'ovvietà del padrone del Job's Bar. Nel frattempo giocherellavo con un salatino a forma di sassofono.
- È chiaro che tu sia perso totalmente di questa qui... Come hai detto che si chiama?- Il suo sopracciglio si alzò così tanto che gli arrivò dietro la nuca.
- Alina, te l'ho già detto trecentoventisette volte.- la mia risposta non poteva che essere rassegnata.
Pino, pensionato pluri-ottuagenario, si destò dal suo torpore dettato da ingenti dosi di quotidiani sportivi e Cynar (più Cynar che altro), si alzò in piedi dal suo tavolo ad angolo, sotto la foto di Eddy Merckx. Si alzò e con il bastone improvvisò qualche passo di danza.
- Oh Alina, d'oriente la più carina!- esclamò l'improbabile ballerino.
- Carina non c'è dubbio. Speriamo almeno che non sganci i tuoi stessi peti- gli dissi, allungandogli una pacca sulla spalla.
- Spera bene giovanotto. Altrimenti moriresti tra atroci sofferenze- detto ciò, tornò a sedersi, non dopo una bronza del sesto grado della Scala Richter (crollo di case, panico generale). Noi del bar ci eravamo abituati, quindi non ci scomponemmo più del necessario.
E così anche stavolta tornavo a casa a piedi, stordito, con lo sguardo spento, sempre sul solito marciapiede.
Chissà dov'è ora, chissà cosa starà facendo, mi starà pensando?
Cristo! Che ragionamenti da bimba dodicenne ascoltatrice di quelle boyband che tanto ti fanno battere il cuoricino.
Risi fragorosamente di me stesso.
Un'anziana signora mi guardò storto e sembrò puntarmi con il suo infimo chihuaha.
Un ammasso minuscolo di pelle e ossa che cominciò ad abbaiarmi contro con una certa grinta.
- Cosa vuoi da me? Lo sai benissimo che non ti toccherei neanche con un fiore!- Gli dissi amorevolmente piegandomi verso di lui.
- Screanzato!- Fece indignata la signora tirando verso di sé il suo pupillo.
A passi brevi e ben calibrati mi riavviai verso casa.
E vuoi che non ci sia ancora una volta lei davanti alla porta di ingresso?
Da sola però. Molto meglio.
Una scarica di adrenalina al cervello mi prese a schiaffi e svegliò anche qualcun altro nei miei pantaloni da mercato cinogiappokoreano. Fortunatamente la mia lucidità tornò ad essere a livelli accettabili pubblicamente.
- Buonasera Alina!- la salutai con un espressione da vero micione. Come di quei gatti neri, straordinariamente grossi e polposi, che sanno solo giocare con dei gomitoli di lana rossi.
- Complimenti per il tempismo. Avrei giusto bisogno di qualcuno con le braccia forti.- disse con quell'aria sbarazzina che non può far altro che mandarmi in brodo di giuggiole.
- Perché? Non vedo nessuno da prendere a pugni.- Risposi guardandomi in giro, cercando qualche altro cafone da malmenare.
- No. Guarda per terra.- Mi indicò sul marciapiede delle borse della spesa, clamorosamente piene.
Non avevano un bell'aspetto. Tra me e quelle buste ci fu uno scambio di sguardi che non prometteva nulla di buono.
- E come sono arrivate fin qua?- interrogai la teste.
- Con la macchina, no?- Mi indicò una macchina terribilmente vecchia che aveva più anni di lei: una Yugo Vastava. Non potei che rimanere affascinato da un simile reperto archeologico.
- Ehi! Non hai mai visto un fossile del Pleistocene?- ridacchiò delicatamente con quella boccuccia deliziosamente deliziosa... Sì, ero proprio partito, non capivo più niente.
- Spiritosa e anche con minimo di base culturale! Bene Alina, da brava ragazza educata, come si dice?- Mi avvicinai a lei e mi feci imponenete grazie ai miei centimetri.
Lei si allungò sulle punte dei piedi, si aggrappò ancora una volta al bavero del mio impermeabile, fece degli occhioni dolci da annegarcisi dentro, morire, rinascere e ripetere all'infinito, sollevò la gamba destra all'indietro, come per prendere slancio e saltare.
Molto timidamente, con i palmi delle mani le sfiorai i fianchi, solo per evitare che perdesse l'equilibrio. Mi sentivo, per come dire, strano. Non che fossi imbarazzato, anzi, solamente mi sembrava tutto così particolare, inusuale, che ero innaturale, bloccato.
- Per piacere me le porteresti su in casa?- “Implorò” lei.
- Non mi va mica bene che tu prenda così tanta confidenza. Per niente- In verità ero semplicemente in estasi.
Senza perdere altro tempo in facezie, mi chinai e le mie mani tozze afferrarono senza pietà le buste di plastica a gruppi di tre.
Stavo morendo dalla fatica. Non avrei mai creduto che in così poco spazio potesse stare così tanta roba.
- Io non ci riesco a portarle su in casa. Ma vedo che per te non sono un problema.- Osservò Alina.
- No, no. Non ti preoccupare.- Risposi spavaldo, con il cuore ormai prossimo all'esplosione.
Fu un'originale rivisitazione della Via Crucis.
Uno sciagurato vessato da codeste maligne sportine, schernito anche dai marmocchi del terzo piano, portava, con le sue esauste braccia, enormi pesi fino alla tanto anelata redenzione finale.
Credevo che nel mio condominio ci fossero meno rampe di scale.
Dovetti sudarmi ogni singolo gradino sino al portone del suo appartemento.
Gliele posai davanti all'entrata.
- Grazie mille! Non ti scomodare a portarle dentro. Qui ci penso io.- squittì la mia dolce Alina.
Mi diede un bacetto sulla guancia, come quando si hanno quattro anni e si ha la prima fidanzatina alla scuola materna.
Ero proprio tornato bambino.
- Ciao e grazie ancora.- Iniziò a portare dentro le borse. Una busta per volta.
- Beh, sei hai bisogno di qualcos'altro fammi un fischio.- Ormai sulla fronte avevo scritto “Benvenuti”.
Mi accomiatai e me ne tornai nella mia spelonca, barcollando un po' per la fatica, un po' per la sbornia dovuta al suo profumo francese di marca.
E@