lunedì, giugno 08, 2009

Ciao ciao blogger!

Il blog si è trasferito qui:

http://gcasagrande.wordpress.com

Questo spazio non verrà più aggiornato ma rimarrà aperto come archivio storico.

:-)

Saluti dal Gabbro

sabato, febbraio 02, 2008

Discorsi inutili.

Dopo diversi secoli, aggiorno il blog con un racconto breve. Il titolo descrive l'argomento trattato, quindi prendetelo con molta leggerezza. Buona lettura.

In quella mattinata primaverile, Michele ed Alessio stavano serenamente bighellonando nel parco cittadino.

La morosa che non avevano e l'università potevano aspettare. Si erano presi qualche ora di libertà e stranamente stavano facendo dei discorsi seri, o almeno così credevano.

Non riesco proprio a capire, disse tutto infervorato Michele, scienziologo della coniugazione, come facciate voialtri di ingegneria meccanica a continuare così. È praticamente impossibile trovare qualcuno che legga dei libri o si interessi, anche minimamente, di qualcosa di artistico, come teatro o pittura, che so io.

Odio il teatro, rispose telegrafico Alessio.

Ecco vedi! È una cosa inconcepibile!

Michele salì su un immaginario pulpito, aprì il braccio destro per definire l'ampiezza e la magnificenza della sua argomentazione, si grattò un brufolo piazzato sul suo grosso naso e sparò la perla.

Il teatro è una delle massime espressioni dell'uomo!

Qual è l'ultimo libro che hai letto? Interrogò con sguardo torvo.

Il signore delle mosche.

Quando l'hai finito?

La settimana scorsa.

E il penultimo che hai letto?

Mmmh... Non me lo ricordo. Comunque, è una questione di cosa uno sia più o meno capace di fare. Tu da quanto è che non risolvi una derivata?

Oh cazzo, saranno due anni! Ma il punto non è questo. Tutti siamo capaci di leggere!

Dai, te l'ho detto, lo so benissimo. Le cose umanistiche non mi piacciono, non mi sono mai piaciute. Colpa mia, colpa dei professori che non me le hanno fatte piacere. Però mi sono sempre trovato bene con la matematica.

Una cosa positiva per te. Almeno non mi spari a zero sulle cose umanistiche. Vuoi mettersi il modo di rapportarsi ai problemi di un laureato in filosofia rispetto a un geometra? Con tutto il rispetto per questi malfattori che studiano il modo migliore per fare crollare le case.

Oh Cristo, hai ragione. La differenza la vedi anche nell'impostare una discussione. Non bisogna per forza assistere a un confronto tra un filosofo e qualcun altro. Basta guardare quelli usciti dai licei!

Beh, calma!

Frenò Michele.

C'è anche poi da dire che vengono impartite conoscenze diverse, non per questo di minore qualità. Non è che tutte le donne che escano dalle magistrali o dal sociopsicopatologico siano delle pervertite ninfomani.

Eh no, purtroppo non lo sono, rispose Alessio fingendosi sconsolato.

Si scambiarono un sorriso di complicità per la zozzeria appena partorita.

Ma la cosa che mi fa più specie, disse Michele, è l'incapacità di "osservare".

Eh? Fece Alessio, con uno sguardo su cui era stampato un bel punto di domanda.

Intendo, fermarsi un attimo e guardarsi attorno... Guardare la gente.

Vecchio, stai delirando

Dai, Ale! Una volta che non parlo di birra, musica e donne tu c'hai anche da rompere le palle. Sei proprio un pistola!

Vai tranquillo, stavo scherzando, continua pure. Con una piccola alzata di spalle accennò la risata. Michele gli lanciò un'occhiata di rimprovero.

I due arrestarono la loro camminata.

È semplicissimo, disse Michele, bisogna smettere di guardare sempre per terra quando si cammina. Le monete da due euro sono già state tutte raccolte.

Ok, fin qui ci sono.

Poi, inizia a guardarti intorno e getta un occhio sulle facce della gente.

Questo qui o è matto o è scemo, pensò Alessio.

Non fare quella faccia, ti sto dicendo una cosa sensata, cazzo!

Alessio non fiatò.

Lo vedi quel signore con l'impermeabile, seduto sulla panchina che legge il giornale, là, vicino a quella coppietta di morosini quindicenni.

Alessio annuì.

Bene, ora parlami di quest'uomo.

Beh, sembra avere un'aria tranquilla.

Tutto qui? Chiese Michele, con aria stupefatta.

Cosa vuoi che ti dica? È un tizio anziano qualunque che legge il giornale al parco.

Prova ad andare oltre, osservalo bene.

Ti giuro che non vedo nulla di strano.

Non noti il suo picchiettare per terra con la punta del piede. Potrebbe essere malato oppure essere semplicemente teso per qualcosa. Nota gli occhi. Non sono rilassati e sereni. Forse ha dormito poco, forse ha il raffreddore o la congiuntivite. Siamo in primavera, quindi è facile patire qualche allergia. Oppure è nervoso. Vedendo la smorfia che fa con la bocca, propenderei per quest'ultima ipotesi.

Ah! Esclamò Alessio che era comprensibilmente stupito e divertito. Scosse la testa.

Secondo me stai sparando un bel po' di stronzate.

Può essere, rispose Michele. Ma chissà dietro a quello là seduto sulla panchina potrebbe celarsi chiunque. Un agente segreto, un dittatore in esilio, un imprenditore fallito, un pazzo. Forse non lo sapremo mai.

Dai, vecchio trapano. Andiamo che è tardi. A questo giro ti offro il pranzo

Alessio diede una pacca sulla spalla al suo amico.

Accetto più che volentieri.

I due giovanotti se ne andarono per la loro strada.

Nel frattempo, il signore anziano, con aria scocciata, piegò il giornale, si alzò dalla sua panchina, fece pochi passi e giunse nei pressi della coppietta di morosini quindicenni.
Scusate bambini, ma i vostri discorsi sciocchi mi hanno decisamente annoiato.
Non attese la replica. Dalla tasca interna dell'impermeabile estrasse una nove millimetri e aprì il fuoco.

mercoledì, ottobre 17, 2007

Autobus Vol 2

{ATTENZIONE! Se credi che i Finley siano la rinascita della musica italiana, che i Tokyo Hotel facciano del rock pesissimo e che la dicitura MCR significhi My Chemical Romance, e non Modena City Ramblers, allora smamma, pivello! Questo post è troppo serio e socialmente impegnato per un bimbo di 12 anni come te. Se la cosa non ti va giù, puoi andare direttamente a piangere dalla tua mamma!}

Tempo da cani. Pioveva a secchiate. Fortunatamente ero in autobus, seduto in fondo, come sempre. Il mezzo pubblico si fece largo a spallate nel traffico per poi accostare a destra, presso la fermata.
Salì una signora anziana, probabilmente con più di quattro quinti secolo sulle spalle.
Era molto minuta e il suo abbigliamento rispecchiava lo stereotipo della nonna proprio dei fumetti: gonna pesante lunga, di tessuto così fine che avrebbe potuto essere di caprone; maglioncino caffè-latte lungo, quasi a diventare un tutt'uno con la gonna, foulard a cingere il capo, per proteggerla dal freddo pungente di quella giornata fetente.
Non sembrava malata di qualcosa, tipo di quei morbi bastardi che ti devastano gli ultimi tempi dell'esistenza. La lentezza dei movimenti e la delicatezza con cui la sua mano accoglieva la ringhiera per reggersi in piedi non mi fecero balenare in testa il concetto di “Pieno vigore fisico”. A piccoli passi, si mosse lungo il corridoietto del bus fino a sedersi di fronte a me. Mi radunai un po', cercando di apparire meno stravaccato.
Tornai a guardare fuori dal finestrino, a vedere quello che stava succedendo all'esterno di questo umido scatolone su quattro ruote.

Di tanto in tanto, la coda del mio sguardo impertinente andava a stuzzicare la mia vetusta compagna di viaggio.
Il tempo era inevitabilmente passato sul suo viso con dei mezzi militari cingolati. Ma le aveva lasciato intatti gli occhi. Dannatamente azzurri, di un'altra epoca; occhi che racchiudevano quella forza che il corpo non le permetteva di esprimere. Occhi che mi riportavano a stagioni passate, che io, in qualità di sbarbatello ventenne, ho sempre e solo sentito raccontare. Dai miei nonni, dalla campagna tra i frutteti , dalle stradine del centro, dalle caldarroste del parco. Stava osservando il paesaggio di semafori e luci anabbaglianti. Io continuai a contemplare i suoi occhi, con quello spirito di riverenza e rispetto con cui ci si dovrebbe accostare a un quadro, badando bene a non violarne la sacralità e a comprenderne il messaggio.

Io sono ancora qui
Nonostante tutto
Nonostante tutti
Nonostante il meglio sia già passato
Io sono qui
finché mi rimane
un cucchiaino di energia
un tortellino di forza
un cicchetto di voglia
Io sono qui
fino a quando
le danze si chiuderanno
e tutti i convenuti applaudiranno
entusiasti e sorridenti
la banda di musicanti
Io sarò qui

Dentro di lei, finii di sfogliare quel libro rivestito da una sottilissima pellicola di malinconia, poi lo richiusi delicatamente.
Tornai, ancora una volta, a pensare ai zozzi affaracci miei: non mancava tanto alla mia fermata e più tardi avrei avuto allenamento di calcetto.
Dopo qualche istante, la signora si alzò dal suo posto, senza preavviso, e si diresse verso l'uscita. Sembrava indispettita, irritata.
Come se qualcuno avesse messo in disordine gli scaffali della sua libreria.

lunedì, ottobre 08, 2007

Autobus Vol 1

{ATTENZIONE! Se sei una persona sensibile, benpensante e ciellina non leggere questo post! In questo raccontino del piffero mi sono divertito da matti a fare lo sporcaccione e lo zozzone quindi potresti non gradire quello che vado ad esporrre. Altrimenti continua pure a tuo rischio e pericolo. Io ti ho avvisato. Poi non andare a piangere dalla mamma.}

Non ero seduto in fondo al bus come solito. Ero mediamente avanti. [Si può scrivere “mediamente avanti”? Non lo so, lo scrivo lo stesso.]
Beh, sta
di fatto che mi stavo tranquillamente appisolando sul seggiolino quando, a una fermata, salì una donna graziosa.
Era chiaramente dell'est, sulla trentina abbondante ed era alta un soldo di cacio.
Bionda liscia fino alle spalle, abbastanza carina di viso.
Un petto aggressivo, sull'attenti, e un paio di jeans che insaccavano un culetto bello tondo, tutto da mordere. Per non parlare poi degli stivali di cuoio.
Mani in alto, gente!
Vagabondò un po' per il bus, poi presela saggia decisione di sedersi di fronte a me.
Trasportava due borsette e una busta da profumeria: un po' troppo per le sue manine piccole.
Comunque doveva passarsela bene visto l'orologiazzo che le fregiava il polso.
Si tolse la giacchetta discotecara, sicuramente di marca. In quel momento, però, non ci feci molto caso perché la mia compagna di viaggio rivelò una maglia color crema pasticcera decisamente aderente. Non capii cosa stesse accadendo perché i suoi seni diventarono dei veri pezzi di artiglieria pesante.
Solitamente, un bagaglio eccessivamente vistoso può risultare grottesco e pacchiano per chi lo porta. Invece, per questa signorina (signorina, niente fede all'anulare) tutto calzava alla perfezione.
Ero visibilmente frastornato.
Non è mai un bene essere aggrediti così a bruciapelo, alla mattina presto.
Provai a ribattere a questa poderosa offensiva con un sorrisetto di circostanza.
Niente da fare.
Il sangue stava migrando dal cervello grande al cervello piccolo.
Fortunatamente avevo la borsa sulle ginocchia.

La difesa si salva in rimessa laterale” commentò il telecronista immaginario della mia testa vuota.
Lei tirò fuori il cellulare da una delle sue cinquantasette borse. Sembrava piuttosto nuovo.
Cominciai a pensare che avesse meno di trent'anni.

Vuole sedersi?” Chiese a una signora anziana che stoicamente resisteva alla guida turbolenta dell'autista.
Purtroppo, non aveva una bella voce: sebbene non fosse gracchiante, era un timbro da lana di vetro, ferramenta e mani masticate da chiavi inglesi e pinze.

Così perdi punti, dolcezza” pensai tra me e me, con sguardo da volpone.
Insomma, non mi diceva nulla come donna, però mi suscitava delle buone sensazioni a livello pubico.
Si rimise la giacca e la sua milizia tornò in posizione di riposo.
Scese nei pressi del policlinico.
Con lei quella stupenda ragazza di colore salì sul bus con me, alla mia stessa fermata.
Davvero una bellezza superba, un metro e ottanta, ricoperta di jeans: l'avrei vista bene in sella a una motocicletta, se non fosse stato per il paio di ballerine ai piedi.
Di solito, le donne di colore hanno un viso potente, tutta sostanza, con pochi fronzoli.
Invece, lei era adorabile, fine, fanciullesco. Lo sguardo era grazioso, ma allo stesso tempo fiero e determinato, da vera e inimitabile valchiria d'ebano. In tenuta da principessa guerriera non avrebbe affatto sfigurato.
Purtroppo non si sedette nelle mie vicinanze.
Così, non ebbi la possibilità di effettuare un'indagine approfondita con il mio occhio clinico.
Come per la signorina dell'est.

venerdì, agosto 24, 2007

Job's Bar 6 (part 3)

- E cosa avresti fatto tu, scusa? - Chiese Lester asciugando un boccale con un burazzo, aggrottando così tanto la fronte da fare sembrare il suo viso una maschera grottesca teatrale.
Anche a questo giro, ero sempre piazzato sul mio inseparabile trono, lo sgabello in cellophane di elefante.
- Te l'ho detto, gli ho tirato un cazzotto dritto sul mento. E gliel'ho tirato anche bene!- Con orgoglio mostrai parte della mia dentatura lievemente ingiallita, come sorrisetto.
- Io ti conosco da un po'. Fino a ieri non ti avrei neanche visto dare un calcio a un cappone. Ora ti trasformi in un giustiziere. Ciò vuol dire solo una cosa...- Sentenziò l'esperto barista.
- Sentiamo, oh bocca della verità - Ero pronto ad accogliere l'ovvietà del padrone del Job's Bar. Nel frattempo giocherellavo con un salatino a forma di sassofono.
- È chiaro che tu sia perso totalmente di questa qui... Come hai detto che si chiama?- Il suo sopracciglio si alzò così tanto che gli arrivò dietro la nuca.
- Alina, te l'ho già detto trecentoventisette volte.- la mia risposta non poteva che essere rassegnata.
Pino, pensionato pluri-ottuagenario, si destò dal suo torpore dettato da ingenti dosi di quotidiani sportivi e Cynar (più Cynar che altro), si alzò in piedi dal suo tavolo ad angolo, sotto la foto di Eddy Merckx. Si alzò e con il bastone improvvisò qualche passo di danza.
- Oh Alina, d'oriente la più carina!- esclamò l'improbabile ballerino.
- Carina non c'è dubbio. Speriamo almeno che non sganci i tuoi stessi peti- gli dissi, allungandogli una pacca sulla spalla.
- Spera bene giovanotto. Altrimenti moriresti tra atroci sofferenze- detto ciò, tornò a sedersi, non dopo una bronza del sesto grado della Scala Richter (crollo di case, panico generale). Noi del bar ci eravamo abituati, quindi non ci scomponemmo più del necessario.
E così anche stavolta tornavo a casa a piedi, stordito, con lo sguardo spento, sempre sul solito marciapiede.
Chissà dov'è ora, chissà cosa starà facendo, mi starà pensando?
Cristo! Che ragionamenti da bimba dodicenne ascoltatrice di quelle boyband che tanto ti fanno battere il cuoricino.
Risi fragorosamente di me stesso.
Un'anziana signora mi guardò storto e sembrò puntarmi con il suo infimo chihuaha.
Un ammasso minuscolo di pelle e ossa che cominciò ad abbaiarmi contro con una certa grinta.
- Cosa vuoi da me? Lo sai benissimo che non ti toccherei neanche con un fiore!- Gli dissi amorevolmente piegandomi verso di lui.
- Screanzato!- Fece indignata la signora tirando verso di sé il suo pupillo.
A passi brevi e ben calibrati mi riavviai verso casa.
E vuoi che non ci sia ancora una volta lei davanti alla porta di ingresso?
Da sola però. Molto meglio.
Una scarica di adrenalina al cervello mi prese a schiaffi e svegliò anche qualcun altro nei miei pantaloni da mercato cinogiappokoreano. Fortunatamente la mia lucidità tornò ad essere a livelli accettabili pubblicamente.
- Buonasera Alina!- la salutai con un espressione da vero micione. Come di quei gatti neri, straordinariamente grossi e polposi, che sanno solo giocare con dei gomitoli di lana rossi.
- Complimenti per il tempismo. Avrei giusto bisogno di qualcuno con le braccia forti.- disse con quell'aria sbarazzina che non può far altro che mandarmi in brodo di giuggiole.
- Perché? Non vedo nessuno da prendere a pugni.- Risposi guardandomi in giro, cercando qualche altro cafone da malmenare.
- No. Guarda per terra.- Mi indicò sul marciapiede delle borse della spesa, clamorosamente piene.
Non avevano un bell'aspetto. Tra me e quelle buste ci fu uno scambio di sguardi che non prometteva nulla di buono.
- E come sono arrivate fin qua?- interrogai la teste.
- Con la macchina, no?- Mi indicò una macchina terribilmente vecchia che aveva più anni di lei: una Yugo Vastava. Non potei che rimanere affascinato da un simile reperto archeologico.
- Ehi! Non hai mai visto un fossile del Pleistocene?- ridacchiò delicatamente con quella boccuccia deliziosamente deliziosa... Sì, ero proprio partito, non capivo più niente.
- Spiritosa e anche con minimo di base culturale! Bene Alina, da brava ragazza educata, come si dice?- Mi avvicinai a lei e mi feci imponenete grazie ai miei centimetri.
Lei si allungò sulle punte dei piedi, si aggrappò ancora una volta al bavero del mio impermeabile, fece degli occhioni dolci da annegarcisi dentro, morire, rinascere e ripetere all'infinito, sollevò la gamba destra all'indietro, come per prendere slancio e saltare.
Molto timidamente, con i palmi delle mani le sfiorai i fianchi, solo per evitare che perdesse l'equilibrio. Mi sentivo, per come dire, strano. Non che fossi imbarazzato, anzi, solamente mi sembrava tutto così particolare, inusuale, che ero innaturale, bloccato.
- Per piacere me le porteresti su in casa?- “Implorò” lei.
- Non mi va mica bene che tu prenda così tanta confidenza. Per niente- In verità ero semplicemente in estasi.
Senza perdere altro tempo in facezie, mi chinai e le mie mani tozze afferrarono senza pietà le buste di plastica a gruppi di tre.
Stavo morendo dalla fatica. Non avrei mai creduto che in così poco spazio potesse stare così tanta roba.
- Io non ci riesco a portarle su in casa. Ma vedo che per te non sono un problema.- Osservò Alina.
- No, no. Non ti preoccupare.- Risposi spavaldo, con il cuore ormai prossimo all'esplosione.
Fu un'originale rivisitazione della Via Crucis.
Uno sciagurato vessato da codeste maligne sportine, schernito anche dai marmocchi del terzo piano, portava, con le sue esauste braccia, enormi pesi fino alla tanto anelata redenzione finale.
Credevo che nel mio condominio ci fossero meno rampe di scale.
Dovetti sudarmi ogni singolo gradino sino al portone del suo appartemento.
Gliele posai davanti all'entrata.
- Grazie mille! Non ti scomodare a portarle dentro. Qui ci penso io.- squittì la mia dolce Alina.
Mi diede un bacetto sulla guancia, come quando si hanno quattro anni e si ha la prima fidanzatina alla scuola materna.
Ero proprio tornato bambino.
- Ciao e grazie ancora.- Iniziò a portare dentro le borse. Una busta per volta.
- Beh, sei hai bisogno di qualcos'altro fammi un fischio.- Ormai sulla fronte avevo scritto “Benvenuti”.
Mi accomiatai e me ne tornai nella mia spelonca, barcollando un po' per la fatica, un po' per la sbornia dovuta al suo profumo francese di marca.


E@

lunedì, agosto 20, 2007

Job's Bar 6 (part 2)

Quando sei su di giri per una donna sei inevitabilmente molto più rincoglionito.
È ovvio; le cose ti sembrano diverse dal solito, spesso migliori.
Persino quella birra di bassa lega presa dal market pakindianafghano ti sembra più gustosa.
Anche quel barbone, che solitamente rimette sulla panchina del parco, sembra sorriderti al tuo passaggio.
Guardi per terra, alla ricerca di qualche centesimo, trovi ben mezza cucuzza. Una fortuna!
Ti accorgi anche di come i germogli che emergono dal duro asfalto siano molto più verdi della norma.
Per non parlare poi di quando ai cancelli dei magazzini di anime inscatolate, i palazzoni dormitori, trovi fiori alti mezzo metro e passa, rossi, pulsanti di vita, che se ne fregano di essere su un zozzo marciapiede mentre ce ne sono altri che se le spassano in una confortevole serra di prima categoria, con procaci donzelle pronte a innaffiarli al minimo accenno di sete.
Se n'erano accorti anche quelli del Job's Bar che camminavo a un metro da terra.
Lester, dal suo banco, mi scrutava con fare clinico.
- Se non ti conoscessi, direi che tu sia caduto dal seggiolone. Ma il tuo sguardo ebete parla da sé – disse riponendo l'amaro nel ripiano.
Con la mano stavo facendo danzare un bicchiere di Braulio, ovviamente ero sempre seduto sul mio sgabello foderato di pitecantropo.
- Beh, è la mia vicina di casa. Sinceramente non saprei proprio descrivertela. È graziosa. È fresca, elegante. L'ho sentita parlare al telefono. Non sono riuscito a capire nulla del discorso, ma la sua voce non era di quelle gallinacee, pigolanti e fastidiose, e neanche da cornacchia come una grattata del cambio della macchina. Era flautata, ammaliante... - risposi, fantasticando sul come sarebbe stata nuda nel mio letto.
- Siccome non posso dirti di bere di meno, visto che sei tra le mie principali fonti di reddito, posso solo dirti di fumare di meno. Sempre che tu faccia uso di droghe. No? - chiese Lester, alzando il suo sopracciglio sinistro, cisposo più che mai.
- No, vecchio. Lo sai che sei l'unico in assoluto. - Ammiccai con una bozza di sorrisetto beffardo.
Quel giorno scelsi di tornare a casa a piedi più presto del solito.
Le nuvole non promettevano nulla di buono ed io ero senza ombrello.
Mancavano poche decine di metri dal cancello di casa quando la vidi.
Era esattamente di fronte al cancello di ingresso.
Non era sola.
Inizialmente mi prese la tristezza.
D'altronde non poteva essere altrimenti. Una così è difficile che sia a piede libero.
Poco male.
Anche se l'amaro in bocca restava sempre e comunque.
Con lei, un baldo, ben oltre la mezza età, munito di abbronzatura ben oltre i parametri permessi dalla legge, occhiali da sole in materiale extraterrestre e quattroruote fuoriserie, forse un prototipo giapponese.
Stavano discutendo animatamente.
Lui le urlò qualcosa e le diede una sberla tale da farla cadere a terra.
Questa no.
Non esiste.
Non posso fare passare liscia una cosa del genere.
Ecco a voi “Super Beer”, il super-eroe direttamente dal Job's Bar. Forgiato dai migliori malti e luppoli della baviera, dalle migliori grappe anglosassoni e dalle più pregiate vodke degli Urali.
Gonfiai il petto e non ci pensai due volte a intervenire.
Il mio pugno destro si chiuse, divenne duro come il diamante e le nocche si infransero rovinosamente contro il mento di questo riccastro da strapazzo.
Accusò il colpo.
_ Stronzo, fatti i cazzi tuoi! _ Fece quello tornando verso la portiera del guidatore.
_ Fottiti _ risposi con cavalleria.
_ Sta attento, brutto piglianculo, che la pagherai!_ minacciò quello puntandomi contro l'indice.
_ Torna pure, ti aspetto con una bottiglia di Dom Perignon._ sorrisi allargando le braccia come a volere accoglierlo nuovamente.
Il giovane miliardario di quarantacinque anni se ne andò sgommando con il suo macchinone e mi seppellì con il suo smog da novantanove ottani.
Feci un paio di colpi di tosse. Un incrocio pittoresco tra un gattino bagnato e un settantacinquenne catarroso affetto da polmonite.
Con lo sguardo seguii l'auto rombante scomparire dietro l'angolo poi mi girai verso di lei.
Si avvicinò e mi prese per il risvolto del mio impermeabile liso.
- Grazie! - esclamò raggiante - Era ora che qualcuno gli facesse vedere i sorci verdi a quel figlio di buona donna. -

- Figlio di buona donna? Io non sarei così generoso con lui. - risposi ammirando le sue forme racchiuse in un vestito firmato, eccessivamente sobrio per il suo corpo.
- È davvero difficile trovare qualcuno disposto a rischiare dei lividi per una che neanche si conosce. Tu che dici? - chiese uccidendomi con quegli occhi da cerbiatta.
Ero in paradiso.
Nonostante ciò, il mio aspetto esteriore di reduce da bar lasciò trasparire poco o nulla.
- Beh, sono un personaggio un po' particolare, che ci vuoi fare. - risposi con atteggiamento da Humphrey Bogart dei poveri.
Mi mancava solo il sigaro e il cappello. Per il resto sarei stato perfetto. Vabbé, mi mancava anche la barba fresca di rasatura.
- Direi di averti già visto. Per caso anche tu abiti in questo condominio? - Chiese, quasi saltellando, come una bambina a cui si dava il regalo di compleanno.
- Sì, interno 21, dolcezza. - risposi con voce calda. Calda, come un minestrone di verdure.
- Ehi, sei molto vicino al mio. Io sono al 23. E poi non chiamarmi dolcezza. Lo detesto. Se mai, Alina. - Mi porse la mano per stringere la mia, la stessa che aveva respinto quel maiale di prima.
La presi delicatamente, assaporai con gli occhi quella mano pulita e profumata, mi chinai e gliela baciai, facendo finta di sfiorarla appena con le labbra.
- Madamigella Alina, al suo servizio! - Un cavaliere mediavale, fatto di vestiti vecchi, polverosi, con un lieve puzzo di bere come suo fido scudiero, si mise così agli ordini della sua dama.
Lei rise, ma non fragorosamente. Non disturbò il vicinato con del chiasso inutile. Era una risata più unica che rara, inimatibile anche dal migliore falsario di dipinti d'autore.
Mi presentai. Fornii le mie scarse credenziali.
- Grazie, di tutto. Ora vado su. Ci vediamo presto, va bene? -
- Va bene dolcezza, ehm... Katrijna! Ci becchiamo - La salutai così e contemplai i suoi polpacci sinuosi e guizzanti mentre saliva le scale dell'ingresso del mio palazzotto e il suo vestito svolazzare e accarezzare le sue cosce.
Pochi istanti che durarono un'eternità.
Non so se fu per smaltire la sbornia o per fare un pattugliamento degno di un soldato che feci il giro dell'isolato prima di tornare su in casa.
Sta di fatto che, quando misi piede sulla soglia dell'ingresso, una scintilla mi fece sentire molto più rincoglionito.


E@




sabato, giugno 23, 2007

Job's Bar 6 (part 1)

Oggi niente Job's Bar.

Lester aveva chiuso poiché avevo deciso di prendersi un giorno di pausa.
Vado a visitare i miei parenti di Cà Omaso e San Abomaso” ci aveva detto tutto bello contento, forse per il fatto di non dovere passare la giornata ad asciugare bicchieri e a servirci i soliti cocktail.
Così rimasi a casa.
O meglio nella mia spelonca, la mia tana che era ubicata presso il condominio “Gelsomino” di Via Bagutti.
Non era un appartamento grandissimo, diciamo che era più che adatto per me che vivevo solo, senza donna e prole a seguito.
Aveva tutto ciò che uno stordito di mezza età single potesse desiderare: un divano in contemplazione del televisore, un ampio frigorifero e un letto sempre pronto all'azione.
Spesso quest'azione consisteva (per me) nel girarsi e nel rigirarsi in continuazione, cercando la posizione giusta per catturare il sonno.
La mia reggia non tastava da molto un vero profumo femminile, che so, di vaniglia, oppure una particolare fragranza francese, di marca, esotica, che ti accarezzasse il mento come a scherzarti o a volere invitarti a ballare.
Quello era un buquet decisamente “maschio”: scarpe lasciate a prendere aria in giro per il pavimento, calze fuggiasche dalla rispettiva compagna e canottiere vagabonde aggrappate alle sedie della cucina. Per non parlare poi dei pericolosi esperimenti chimici delle stoviglie sporche abbandonate al loro misero destino nel lavabo, in attesa di un lavaggio rimandato a data ancora da destinarsi.
Inoltre, poco tempo fa, avevo avuto l'invasione delle vespe. Allora i vigili del fuoco mi imbottirono i cassettoni delle persiane di quintali di pallette di naftalina.
La mia divina Versailles sapeva così di pensionato novantenne in fila da tre ore ai sportelli della previdenza sociale.
Semplicemente un dramma.
Così mi rimboccai le maniche e presi l'ardua decisione di rimettere in ordine, per provare almeno a dare una parvenza di pulito, se non altro di decenza, a quello che era il mio territorio, il mio regno.
Compilai una lista delle cose da fare:

  • Nascondere in modo più accurato i numeri di “Tette e motociclette”. Ordinarli per numero e sistemarli in una scaffalatura facilmente reperibile
  • Posizionare una scaffalatura in bagno

  • Racattare tutti i vestiti sporchi, ammucchiarli e metterli in lavatrice accendere un falò

  • Lavare i piatti e le posate

  • Ricordarsi di lavare i piatti e le posate con una fiamma ossidrica

  • Raschiare dal pavimento la patina di sporco (É un peccato, perché dà quel tocco in più di vissuto)

Iniziai di gran lena i lavori.
Seppi poi successivamente, da alcuni miei vicini, che si erano sentiti dei rumori non proprio rassicuranti provenire dal mio appartamento.
Colpa della scaffalatura che mi era caduta sul piede (provocando un'inondazione di offese a tutte le divinità della storia dell'uomo) o al lavabo ventriloquo della cucina? Mmh... Chissà.
Comunque sta di fatto che, a un certo punto, preso dallo sfinimento dalle posate che non volevano proprio saperne di scrostarsi da sole, mi convinsi a gettarle virilmente fuori dalla finestra.
Uscii baldanzoso sul terrazzo, che poi era un misero davanzale di mezzo centimetro quadrato, con un fossile di geranio ad adornare il tutto.
Avevo in mano la bacinella piena di stoviglie.
Mi ero assicurato che sotto non ci fosse nessuno.
Tanto giù al piano terra c'era solo una steppa di asfalto e sarebbe dovuta servire come parcheggio. Più tardi sarei andato a recuperare e a gettare il tutto nel cassonetto mangiarifiuti. Volevo solo la soddisfazione di sfogarmi.
Tutto era pronto.

Per la Repubblica delle Banane e dei Tamarindi Riuniti, per la prova di getto della bacinella, si prepara l'atleta *** ***” strillò un altoparlante. E con esso il grido di una folla immersa in uno stadio immaginario nella mia testa.
La maggioranza del pubblico doveva essere sicuramente maschile dato che percepivo distintamente un fiato decisamente birroso provenire dagli spalti. Poi misi la mano a conca davanti alla bocca. Non era colpa degli spettatori. Ero io.
La rincorsa non era ne troppo lunga né troppo corta. Sulla mia strada non c'erano ostacoli. Potevo coordinare al meglio il mio gesto tecnico. Uno scatto breve seguito dallo sforzo intenso delle braccia nell'atto di gettare il proiettile il più lontano possibile.
Iniziai la rincorsa.
Era determinata, sicura, superba.
Niente e nessuno poteva fermarmi.
Ero ormai a poca distanza dalla soglia del terrazzo.
Le braccia iniziarono a contrarsi, la morsa delle mani si fece più stretta, come a volere strozzare la bacinella.
Un blocco.
Qualcosa mi bloccò. Arrestai tutto. Mi guardai attorno disorientato. Il pubblico iniziò a fischiarmi e a lanciare in campo oggetti: bottigliette, lattine, motorini...
Cercai di capire perché fossi andato in stallo.
Una voce. Una voce femminile, non calda e suadente, ma giovane e squillante.

Non mi sembrava di avere ospiti in casa” pensai, grattandomi finemente il deretano.
La voce proveniva dall'esterno, da fuori dalla finestra.
Stavolta mi affacciai con fare furtivo e guardingo, come un felino (un grosso felino, dato che non sono mai stato piccolo fisicamente ne, tantomeno, agile).
Alla sinistra del mio terrazzo ve n'era un altro, appartenente a un interno diverso dal mio.
E leggermente appoggiata con i gomiti alla ringhiera, vi era una ragazza, una gran bella ragazza (sia ben chiaro), che stava conversando al cellulare.

Ottimo! Una bella patacca di vent'anni! Ecco di cosa avrebbe bisogno un vecchio sporcaccione del mio livello!” Dissi tra me e me, alzando con veemenza il sopracciglio sinistro. Solitamente ciò consisteva in un segno di approvazione.
Continuai a spiarla, nascosto dietro l'anta della porta-finestra. Mi sentivo un po' in colpa ma non riuscivo a farne a meno. Forse perché era davvero troppo bella.
Il profilo, grazioso, truffaldino, gentile e quel naso all'insù che faceva prurito al cuore (e forse anche altrove) erano accompagnati da una bocca agile e morbida. Doveva avere un sorriso ammaliante, in cui perdersi, abbandonarsi e mandare a fanculo il mondo. Non le mancava certo la parlantina, anzi. L'accento però non mi pareva delle mie parti (ruspante e passionale) ma di un paese straniero, forse dell'est.
Poi quella magliettina verde corta che lasciava intravedere l'ombelico e quegli shorts che lasciavano in bella mostra le sue cosciottine... Era decisamente troppo per le mie più che provate coronarie.
Come a pigliarmi per i fondelli, ci si mise anche un venticello leggero, al retrogusto di smog e acciaieria, a smuoverle i lunghi capelli castani chiari mossi che, di tanto in tanto, scendevano a stuzzicarle il collo candido.
Avrei voluto morderlo, graffiarlo, farlo mio.
Mi addentai sgraziatamente il labbro per cercare di mantenermi sulla terraferma.
L'inquinamento creava un originale e simpatico effetto “Arizona”, nel senso che la temperatura atmosferica si avvicinava sempre di più a quella della Valle della Morte. Anche la mia si stava alzando.
Percepii questo incremento nel contemplare la curva geometricamente perfetta, che formava la sua schiena con il sederino e le gambe.
Fui ipnotizzato dalle sue caviglie, sottili e leggere, fatte apposta per volare, o in cielo tra le nuvole o tra le lenzuola. Per me non avrebbe fatto molta differenza.
Nel frattempo, gli spettatori venuti ad assistere alla mia prova stavano sfollando lo stadio compiendo gesti osceni a mio indirizzo e invitandomi a visitare località poco eleganti.
Avevano capito che quel giorno non ci sarebbe stato nessun getto di bacinella dalla finestra.


E@