sabato, aprile 14, 2007

Caro Gatto mio...

Mirko Gatto è un bravissimo ragazzo, anche se, ogni tanto, mi manda catene di Sant'Antonio che io faccio un po' fatica a sopportare.
Così gli ho mandato una mail di risposta.

"Caro Gatto...

Se mi torni a mandare catene di Sant'Antonio, a partire dal giorno seguente in cui avrò aperto la mail ti succederanno le seguenti cose:
Dopo un giorno, i tuoi capelli inizieranno ad avere lo spessore di una gomena da galeone e ti sarà impossibile camminare a causa del peso eccessivo della tua testa.
Dopo due giorni, le tue mani inizieranno a fare gesti inneggianti al metallo, come \m/, senza che tu possa farci nulla.
Dopo tre giorni, la tua mamma ti dirà che sei stato trovato al Lidl dentro una cassa di Fink Brau e che era una balla totale la storia della cicogna.
Dopo quattro giorni, il presidente della repubblica Ozzy Osbourne dichiarirà fuori legge la musica tunca, decretando la chiusura totale dei tuoi locali di svago.
Dopo cinque giorni, la tua voce diventerà stridula come quella di Platinette e sarà oggetto di dileggio generale.
Dopo sei giorni, per un bislacco disguido postale verranno recapitati a casa tua oggetti portatori di malocchio, come gatti neri, scale sotto cui passare e calendari dove il venerdì cade sempre il diciassette.
Il settimo giorno tu starai tranquillamente passeggiando per le ampie vie di Magreta quando un camion fermo di fianco a te, misteriosamente, si ribalterà e disperderà tutto il suo contenuto di melassa su di te. Poi, il contadino Alberto Frigeri, reduce da una giornata di duro lavoro nei campi, non eviterà il rovesciamento del suo carretto di sementi. Nel qual mentre, la signora Morbidelli, dal suo balcone, svuoterà i suoi cuscini di penna d'oca, non accorgendosi della tua presenza. Così sarai, un battuffolo di certe dimensioni, di melassa, grano, piume e penne. Così, aggirandoti per la tua città verrai scambiato per il mostro di Tabina (Stefano Buffagni) e verrai imprigionato per avere turbato la quiete pubblica.

Caro Gatto, spero di essere stato esauriente nel spiegarti quale destino ti aspetterà se mi arriveranno altre catene da parte tua.

Con i saluti più cordiali e amichevoli.

Gabbro"

E@

giovedì, aprile 12, 2007

Istantanea.

Avevo già dato abbastanza nella "famosa" aula di autoapprendimento di inglese.
Due ore e mezza di PC mi avevano distrutto la faccia.
Manco avessi passato il tempo a guardare le donnine nude, pensai.
Era mercoledì.
La piadineria era chiusa.
Come da tradizione andai in pizzaria.
Menu fisso: o Margherita, o Napoli.
Le pizze non erano grandi come quelle normali, ma neanche piccole come le solite pizzette.
Io le chiamavo "pizzotte".
Due e una ceres, feci all'oste, che poi era un semplicissimo pizzaiolo.
Basso, rapido, maneggiava la pala con destrezza e in pochi minuti il mio pranzo era pronto e fumante. Poi sarebbe stata anche molto allettante la condizione di mezzo stonamento che mi avrebbe dato la birra.
Stranamente, il silenzio abitava il locale.
Non c'era nessuno seduto ai tavoli, eccetto un uomo di mezza età.
Sul piano davanti a sé, teneva una lattina di Heineken accartocciata.
La sua pizzotta era aperta, sopra il vassoietto. La stava facendo raffreddare.
Aveva una spolverata leggera di barba, su un viso anonimo, come se ne vedono tanti in giro.
Le sue mani erano ingenerose, tozze, corpulente e le sue scarpe anti-infortunistica erano sporche di terra e fango. Probabilmente un muratore.
I suio occhi puntavano fuori dalla vetrina, in strada.
Uno sguardo difficile da dimenticare.
Stanco, vinto, in attesa di qualcosa, qualcuno.
Con un tiepido bacio di circostanza, il sole salutava la città, il quartiere e sempre quella strada che l'uomo stava osservando, interrogando, per ottenere chissà quale risposta.
Addentò la pizza svogliatamente, senza speranza, con un movimento lento, polveroso.
Delle ragazzotte entrarono rumorosamente e spezzarono l'ignobile armonia di quel momento.
Lui fece finta di nulla.
Non considerò nessuno.
Nel suo mondo esisteva solo quella pizzotta.

E@

giovedì, aprile 05, 2007

Università.

Appena sceso alla stazione, mi colpì subito l'incredibile puzza di piscio.
La gente, grigia, veniva espulsa dai vagoni, grigi, e deposta in questa città, ancora più grigia.
Non manca tantissimo all'inizio della lezione.
Meglio alzare i tacchi e uscire dal cancello del deposito biciclette.
Sono fuori dalla zona franca.
Sono dentro la città.
Una donna orientale dà di stomaco nell'aiuola sul marciapiede e viene sorretta da quello che, forse, sarebbe il suo compagno.
Un comitato di benvenuto d'eccezione, non c'è che dire; pensai tra me e me.
Di buon lena mi incamminai verso l'università, imbracciai con determinazione il lettore mp3 e mi diedi una bella carica con una sana dose di musica.
Da misero pedone qual ero (e quale sono tuttora), affrontai l'iper-mega-maxi-incrocio con gran disprezzo del pericolo, con capriole e volteggi sui cofani delle auto e spettacolari piroette tra camion e motorini.
La strada era monotona e rettilinea fino alla mia destinazione. Uniche note di colore erano i negozi di dischi e gli studenti di due vicini licei: per lo più ragazzotti assemblati alla bell'e meglio, che si atteggiano a gran signori con bionda in bocca e neanche un pelo di barbetta sul visino.
Finita la strada e attraversato il parchetto, giungo vittoriosamente all'università, il tempio della conoscenza, la casa del sapere, la villetta a schiera dell'istruzione, il condominio della cultura...
Piano terra. Deserto più totale. Non c'è nessuno. Le aule sono tutte nei piani superiori.
E così non mi resta che entrare nell'ascensore ed essere trasportato, elevato verso una nuova forma di conoscenza. Mi immagino un clima quasi etereo ed idilliaco: studenti distinti che discutono di attualità, storia e letteratura contemporanea; ragazze graziose che trattano di filosofia, arte e politica...
La porta dell'ascensore si aprì.
I miei turbosogni furono interrotti da un paio di sbarbe che discorrevano sul “Grande Fratello”.
Un colpo sotto la cintura.
Con sgomento e ribrezzo, mi allontano e faccio rotta verso la sacra macchinetta a gettoni che, grazie a misteriosi processi alchemici, avrebbe poi erogato il caffé tanto anelato.
Neanchei in tempo a metter mano al porta-monete che vengo intercettato da un tamarro. Dal grado di ingellamento dei capelli e dalla quantità di mutanda esposta al pubblico capisco che si trattava di un “Tabbozzo di 5° grado”.
Ehi tu, dice, vuoi comprare un bulbo oculare?
No, non credo mi possa servire, rispondo con una certa inquietudine.
Stai all'occhio, potresti averne bisogno in futuro; fa lui mostrandomi un coltellino a serramanico sporco di gelatina e sangue. Poi se ne va a importunare qualche altra ignara matricola come me.
Un elemento che non posso assolutamente non notare è l'eccezionale sovrabbondanza di donne.
Il corridoio ne è pieno.
È un'orda che ha compiuto una vera e propria invasione.
E io sono solo, abbandonato al mio destino, contro questa marea assassina.
Di ragazze ce ne sono per tutti i palati.
Fighine, tutte tirate, come se dovessero andare a ballare nel locale più rinomato della riviera.
Punk-rocker, poche ma comunque presenti, inneggianti a Sid Vicious. Il loro zaino è un arlecchino coperto di spille e pins.
Quelle “normali”, invece, si fanno notare per la loro semplicità, per la loro eleganza, per il fascino del loro sguardo o la leggerezza con cui si mettono a posto i capelli dietro l'orecchio.
Dopo questa scarica di ormoni sarebbe iniziata la prima ora assoluta di lezione.
Tutti in aula!
La stanzona era piena di pecorelle impaurite. I più spavaldi provano a fare conoscenza, a identificare e identificarsi nel gruppo.
Io sono solo un punto indistinto nel mucchio.
Tutti si pongono la stessa domanda: come sarà il prof?
Alto? Magro? Con monocolo e bombetta? Con un blazer verde? Con delle scarpe bianche a pois blu? Io fantasticavo, immaginandomelo con una toga, candida, emanante luce propria, con un viso trasudante saggezza, con mani che volteggiavano nell'aria a per spiegare alti concetti, con voce serena ma perentoria che avrebbe rifocillato le nostre menti affamate di sapere.
Il mio rinstupidimento fu rinsavito dall'ingresso del docente in carne e ossa.
Un uomo di stazza media, maturo, con una capigliatura nera esplosa sulla testa, occhi piccoli ma guizzanti, schermati da occhiali sottili.
Non ha nessun blazer verde ma una giacca in lanaccia color piombo e le sue scarpe non sono a pois blu ma di vera finta pelle marrognola, tipo castagna.
Signori, benvenuti all'università; dice con voce baritonante. Lo stile e la compostezza sono gli stessi del presentatore del festival internazionale delle bande militari.
Le sue scartoffie vengono posate sulla cattedra: libri, cartelle e fogli volanti si arenano sul tavolo come un cetaceo sul bagnasciuga.
Questo è per voi l'inizio di un percorso lungo e difficile, voi sarete la futura classe dirigente; disse gonfianfo il petto.
A quest'ultima affermazione abbozzai un sorrisetto perplesso. Io nella “futura classe dirigente”? Mah, ho qualche dubbio a riguardo.
Intorno a me, molti sembrano della mia stessa opinione.
C'è chi ruminava chewingum, chi compone sui banchi artistici “scemo chi legge”, chi ammicca alle donne, chi si dedica all'aeronautica cartacea e chi, come me, scrive cavolatelle (tutte realmente accadute), senza pensarci troppo su.
Così è iniziata una nuova sfida.
Sarà interessante avere uno scopo vero.
Sarà stimolante affrontare argomenti molto più stimolanti di amenità come la prospettiva accidentale o i processi di formazione delle rocce: ricordo con gran dispiacere i momenti in cui mi sono dovuto rapportare con cose del genere ai vecchi tempi.
Ora va diversamente: lo studio adesso è quasi “agonistico. Affronto materie nuove che mi incuriosiscono, che mi fanno il solletico e mi danno una spintarella ad andare oltre, a spostare il segno sempre più avanti. Sfido me stesso, mi osservo e guardo dove posso arrivare.
Ed è un brivido, un pizzicotto, una scossa, che è semplicemente indescrivibile.

- E@ -